Naturalmente Selvatico?

Naturalmente selvatico

Piante, fiori, arbusti e bacche sono sempre stati alla base dei regimi alimentari contadini e popolari: ne è nata una sorta di “gastronomia della necessità”, dove fame e carestia hanno reso appetibile quello che prima era relegato al selvatico, al non mangiabile!

La sezione, a cura di Danilo Gasparini, in collaborazione con Silvano Rodato, indaga il rapporto fra uomo e natura, come fonte di sostentamento e cura.

Per secoli medici e speziali hanno studiato e sperimentato, giungendo alla stesura di trattati di materia medica che hanno avuto grande diffusione con l’avvento della stampa: questi erbari, con le loro conoscenze botaniche e farmacologiche, sono stati a lungo l’unica fonte di farmacopea disponibile.

In esposizione, per la prima volta, alcuni fogli di un prezioso erbario secco di origine tirolese, datato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.

Erbe…
in carta

Per secoli, medici e speziali hanno studiato e sperimentato quanto si poteva apprendere dall’osservazione della natura, per giungere in seguito alla stesura di trattati di materia medica che hanno avuto grande diffusione con l’avvento della stampa. Gli erbari, con il loro immenso bagaglio di nozioni botaniche e farmacologiche e i dettagliati disegni, hanno rappresentato a lungo la fonte principale per lo sviluppo della medicina e della farmacopea, ma anche uno sforzo per classificare, riconoscere, studiare l’universo vegetale e minerale. Erbari manoscritti o a stampa o secchi hanno così sostenuto per secoli la ricerca e la scienza medica. 

La più antica e splendida testimonianza di erbario manoscritto è il Codex Vindobonensis (VI d.C.): scritto in greco, illustra con grande realismo e descrive le proprietà di oltre 400 piante. 

In età moderna alcuni dei trattati più diffusi sono opera di Durante Castore, di Jacobus Theodorus e di Pietro Andrea Mattioli.

Erbario di area tirolese
tra il XVIII e il XIX secolo

L’erbario è costituito da una raccolta di 844 campioni di piante essiccate, la cui composizione si può collocare tra gli ultimi anni del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento. Gli esemplari sono inseriti in un bifolio di carta spesso vergellata e filigranata; ciascun bifolio contiene un tassello cartaceo manoscritto con il nome descrittivo del campione; in genere il medesimo nome manoscritto è riportato al recto della prima carta del bifolio.

L’erbario è stato ritrovato all’interno di un antico baule e proviene dalla regione alpina del Tirolo storico che comprendeva anche l’attuale Trentino Alto - Adige. Non è noto con precisione il periodo di stesura dell’erbario ma si tratta evidentemente del frutto di anni di lavoro, come suggerisce la diversa compilazione delle ‘etichette’, il tipo diverso di scrittura, la differente carta usata. È molto probabile che, oltre alle piante raccolte direttamente dall'autore, l’erbario conservi anche esemplari frutto di scambi con altri botanici – tra l’altro degno di nota il fatto che alcuni campioni provengano dal Nuovo Mondo. Si può supporre che l’autore sia un botanico già noto in bibliografia  il cui erbario è dato per disperso. La classificazione botanica utilizzata, anche se errata o superata, rispetta la regola proposta da Linneo (genere e specie per ogni esemplare), ma mancano indicazioni precise sul luogo e la data di raccolta del campione.  

Non solo
lana…

Molte piante si sono prestate, nel corso dei secoli, ad essere usate non solo per i loro frutti ma anche, data la loro versatilità, per altri impieghi. 

Accanto alla lana, vennero utilizzate per realizzare tessuti molte fibre vegetali. Le più note sono la canapa e il lino, dapprima raccolti negli ambienti naturali e poi via via coltivati per produrre indumenti, lenzuola, tovaglie e quant’ altro. La stessa ortica si è prestata a questo scopo. Ma anche le erbe palustri, i canneti, trovarono un largo impiego da parte dell’uomo. Oggi, in risposta alle nuove sensibilità ambientali e grazie alla ricerca, molte di queste fibre, a volte estratte dagli scarti vegetali, ritornano virtuosamente in circolo producendo nuovi materiali ecocompatibili e sostenibili.

Profumo
di pascolo

Prati e pascoli, ovvero domestico e selvatico. Un alto grado di biodiversità si trova nei prati naturali e perenni, mentre in quelli destinati ai foraggi per l’allevamento, l’uomo ha selezionato le piante foraggere più adatte. Ma è soprattutto nei pascoli alpini che la natura esprime il massimo di “naturalità”, di “selvatichezza”.  Qui, da millenni, l’uomo pratica un’attività pastorale, l’alpeggio, che comporta una transumanza estiva. La varietà di erbe e di profumi, diversi ogni mese, si trasmette al latte e ai formaggi. I prati offrono non solo foraggio per il bestiame ma anche erbe e fiori destinati all’alimentazione umana in forma di infusi e distillati digestivi.  Oggi l’alpeggio si è caricato di nuovi valori ambientali: frena l’avanzata del bosco e permette esperienze di wildness, di “ritorno al selvatico”, che incontra nuovi bisogni di benessere e di salute.

La dolcezza
del selvatico

L’uomo, fin dalla nascita, predilige il gusto dolce. Il miele, considerato il nettare degli dèi, simbolo di felicità, usato per preparare cibi dolci e salati o bevande fermentate come l’idromele, è stato uno dei primi prodotti “selvatici” cercati dall’uomo per dolcificare il pasto. La natura ha messo a disposizione delle api e dell’uomo piante e fiori – la rosa alpina, il cardo, la menta, la polmonaria, la primula, il castagno, l’ acacia…– che hanno permesso di sviluppare un’apicoltura esperta. È tuttavia da segnalare che il miele, dall’XI secolo in poi, quando cominciò a circolare in Italia lo zucchero di canna – cannamele – è divenuto un prodotto di pregio, non disponibile, se non in piccolissima quantità. per l’alimentazione dei contadini che ricavavano il sapore dolce dalla frutta fresca ed essiccata, e dal mosto cotto, fino all’arrivo dello zucchero estratto dalla barbabietola.

Dopo il XVI secolo, l’importanza del miele si riduce notevolmente, soppiantato dalla maggiore disponibilità dello zucchero.

Gusto
di bosco

Il bosco, popolato dall’Uomo Selvatico e da altri esseri magici - diavoli, demoni, folletti … - oltre a fornire legna e legname, ha rappresentato per millenni una risorsa alimentare fondamentale per tutte le comunità, tanto da generare statuti e regole per un uso collettivo delle risorse.  Piante e fiori, arbusti, bacche e funghi, in alternativa o combinazione con le piante domesticate, hanno nutrito generazioni di contadini affamati ponendosi alla base dei regimi alimentari popolari, in cui uso nutrizionale e terapeutico sono andati di pari passo. Andare per campi e boschi, dalla primavera all’autunno, era un’attività riservata alle donne e ai bambini, essenziale a riempire le tavole in tempi di carestia, mentre la caccia era una pratica essenzialmente maschile. Ne è nata una sorta di “gastronomia della necessità”, dove la fame ha reso commestibile quello che prima era relegato al selvatico, al non mangiabile.  

Oltre al quotidiano uso alimentare, piante, fiori, frutti trovavano un largo impiego nella farmacopea popolare, praticata soprattutto dalle donne, gelose dei loro segreti e per questo spesso in odore di stregoneria.

Contadini
per forza

Uno dei momenti più importanti della riduzione del selvatico è avvenuto attraverso quella che comunemente è nota come “rivoluzione neolitica”, che ha visto la nascita dell’agricoltura ed il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà. Fu un lungo processo dovuto a più ragioni, che si colloca in un arco di tempo che va dal 10.000 al 4000 a.C. Tre le grandi aree di sviluppo: la Mesoamerica, la Mezzaluna fertile e l’Oriente (Cina e India). Un ruolo importante in questa trasformazione, sostenuta dall’incremento demografico e dal cambiamento climatico, è stato attribuito al fuoco, il cui uso consapevole ha creato delle nicchie ecologiche in cui coltivare piante e allevare animali. Così le specie selvatiche di graminacee e leguminose sono state addomesticate e piegate agli usi e alle necessità delle comunità neolitiche. 

Siamo figli di quelle scelte, di quella “rivoluzione”: ancora oggi per il 60% dei nostri fabbisogni nutrizionali dipendiamo dalle graminacee addomesticate in quel periodo.

Colombo…
selvatico

Tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento l’Europa conquista il “Nuovo Mondo”; vengono scoperti nuovi territori e nuovi popoli che l’Occidente classifica come selvaggi e, attraverso il cosiddetto “scambio colombiano”,  si diffondono nel vecchio continente nuove piante e nuovi animali. Così nelle tavole e nei campi arrivano la patata, la patata dolce, il pomodoro, il mais, il cacao, il peperoncino, la quinoa, numerosi frutti, il tacchino … ma anche legni pregiati, nuovi fiori. Tutto questo verrà percepito e descritto come “selvatico” mettendo alla prova botanici e medici intenti a nominare, classificare, descrivere un nuovo universo vegetale e animale. Dall’altra l’Europa riverserà nei nuovi territori i propri prodotti “civili”: cereali, piante da frutta, la vite, il caffè, ovini, bovini ed equini. Una seconda “rivoluzione”.

La riserva
al femminile

Uno dei luoghi più importanti di domesticazione e sperimentazione, nel corso dei secoli, è stato l’orto. Riservato spesso alle donne, vicino alla casa, l’orto era lo spazio in cui le piante, offerte allo stato naturale da paludi, boschi e prati, vennero piantate, selezionate e migliorate. In seguito, l’industria vivaistica, a partire dalla fine dell’Ottocento, fece propria questa attività di selezione. Quella dell’orto è una straordinaria storia che dall’età classica attraverso gli orti monastici e gli orti botanici giunge agli orti scolastici e agli “orti di guerra” di età fascista, fino alla recente esplosione degli orti urbani. Ma spesso ancora oggi per ogni varietà domestica, uscita da vivai, la natura conserva ancora il corrispondente selvatico nei prati e nei boschi.

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