Selvatico contemporaneo

In molte culture si trovano leggende legate all’Uomo Selvatico e alla sua profonda conoscenza della natura. Il percorso interdisciplinare, a cura di Camilla Nacci Zanetti, è dedicato alla figura dell’Uomo Selvatico come fonte di ispirazione artistica e rappresentazione degli aspetti più istintivi, spontanei e viscerali della creatività umana.

Undici artisti interpretano con esiti differenti il tema del vivere in simbiosi con la natura attraverso il linguaggio dell’arte contemporanea. Le opere di David Aaron Angeli, Francesco Diluca, Federico Lanaro, Angelo Maisto, Jarmila Mitríková e Dávid Demjanovič, Margherita Paoletti, Laurina Paperina, Denis Riva, Virginia Sartori e Pietro Weber si integrano armoniosamente con le collezioni del Museo, inserendosi nell’allestimento permanente.

Nel percorso anche un’opera di Sunday Jack Akban.
 

Francesco
Diluca

Radicarsi micelio, 2024, ferro saldato smaltato, poliuretano e ossido di ferro (320 x 110 x 60 cm), courtesy l’artista

 

Radicarsi, 2024, ferro saldato smaltato ossidato, polvere di rame ossidata, smalto grigio (208 x 50 x 40 cm), courtesy l’artista

 

Skin-padre, 2012, ferro saldato, smalto bianco e polvere di ferro (90 x 50 x 50 cm), collezione privata, Milano

 

Papillon germoglio, 2024, ferro saldato smaltato e ossido di rame (210 x 60 x 40 cm), courtesy l’artista

 

Papillon, 2024, ferro saldato smaltato e polvere di ferro, (208 x 85 x 67 cm), courtesy l’artista

 

Foto Giorgio Gori

 

Nel lavoro scultoreo di Francesco Diluca si assiste a una graduale rarefazione della forma umana, che si colloca al confine tra figurazione e astrazione, avvicinandola concettualmente alle sue radici organiche. Queste caratteristiche compositive permettono all’artista di dare avvio a una profonda riflessione sul concetto di impermanenza, perno attorno al quale ruota la sua ricerca, e punto di contatto fondamentale tra il tempo della natura e il tempo dell’uomo.

Nella serie di cinque opere Radicarsi-Papillon, quattro delle quali concepite esclusivamente per gli spazi esterni del METS, assistiamo a un percorso di progressiva metamorfosi tracciato dall’artista, che conduce visivamente lo spettatore attraverso i passaggi di stato che avvengono nella fusione spirituale con l’ambiente boschivo. Le sculture Radicarsi collocate all’ingresso, rispettivamente in prossimità della colonna a sinistra del cortile e sulla ringhiera a destra, rappresentano due guardiane, le cui silhouette sono formate dalla natura selvaggia. Ci si interroga sulla loro forma umana, completamente disegnata da propaggini vegetali che danno origine a una mimesi completa con il bosco. In particolare, il gruppo scultoreo a sinistra, rappresenta una triade di elementi del terreno, dove il ruolo di connettore esercitato dal micelio diventa fondamentale chiave di lettura dell’opera come metafora delle relazioni umane.

Proseguendo verso gli spazi espositivi, si incontra, nel chiostro, la scultura di un uomo seduto, che tiene in braccio un bambino. Si tratta di Skin-padre, un’opera intima e riflessiva in cui il processo di immersione nella natura è suggerito da un insieme di cavolaie, soggetto pregno di simbologia caro all’artista. Quest’opera traccia un collegamento ideale con le ultime due sculture, Papillon, che fanno da contraltare alle due opere incontrate all’ingresso. Attraverso il passaggio nel bosco, si suggerisce un processo di purificazione ideale rappresentato dalle farfalle bianche. All’interno dei corpi femminili si intravedono foglie e germogli verdi, a evocare il processo ciclico della vita.

Virginia
Sartori

Gebo, 2024
Happening collettivo e performance installativa
durata a ciclo continuo durante l’inaugurazione della mostra

Video loop 2:35’’, tavolette di argilla cotte

 

Artista visiva e performer, Virginia Sartori svolge fin dall’inizio del suo percorso una ricerca sociale che si esplicita attraverso il linguaggio del corpo e dell’azione relazionale. Attraverso un setting installativo, che diventa parte fondamentale del lavoro, Sartori si cala nel ruolo di intermediaria tra il pubblico e il messaggio, assumendo tensioni ed emotività che si liberano nelle fasi finali dei suoi atti performativi. Restano, al termine, oggetti e segni del suo passaggio, che possono essere ulteriormente rielaborati o accompagnare la documentazione video e fotografica del processo creativo.

Gebo è un progetto ispirato alle versioni trentine della leggenda dell’Uomo Selvatico, concepito in forma di happening collettivo e performance installativa, che prevede la partecipazione di un pubblico attivo, invitato a prendere parte integrante alla composizione dell’opera. Attraverso un labirinto simbolico, evocativo del bosco, e allestito nel chiostro del METS, lo spettatore è invitato a perdersi, per poi ritrovarsi attraverso il concetto simbolico di dono. Virginia Sartori, presenza-guida durante l’happening, invita il pubblico a partecipare a un rituale collettivo, mediante l’incisione o la cancellazione di alcuni simboli su una lastra di argilla posizionata a terra. Si tratta di simboli mutuati dall’alfabeto primitivo runico, adatto a rappresentare concetti complessi con segni semplici. L’atto di aggiungere o togliere a cui il pubblico è chiamato, ricorda idealmente i doni fatti dall’Uomo Selvatico alla popolazione, come il segreto del burro e del formaggio, e fa scaturire una riflessione sul concetto di scambio che viene sancita dall’atto finale di Virginia Sartori. Al termine della performance, la lastra d’argilla con le incisioni verrà infatti tagliata e prelevata dall’artista, e infine sottoposta al processo di cottura che ne sigilla simbolicamente il patto.

A testimonianza dell’azione, restano in mostra un video accompagnato dalla traccia audio che racconta il progetto e le tavolette d’argilla cotte dall’artista.

 

Denis
Riva

La techina porta-nullità, 2024
Teca, n. 36 opere su carta formato 11,5 x 8,5 cm l’uno
60 x 80 cm
Courtesy Cellar Contemporary, Trento

 

Nello studio di Denis Riva il richiamo al Selvatico è presente in ogni angolo: dagli affioramenti spontanei della natura a tutto ciò che scaturisce dalla sua inesauribile pratica artistica, attività alla quale si dedica da oltre un ventennio.
Rigenerando uno stabile inutilizzato del Lanificio Paoletti di Follina, Denis Riva –  detto De-Riva – ha dato vita a una fucina creativa, in cui tutto ciò che il resto del mondo concepisce come scarto, per l’artista è occasione di riuso; l’esplorazione delle possibilità che si celano dentro un foglio di carta abbandonato, un ritaglio di lana o nell’acqua colorata dove risciacqua i pennelli, gli permette di realizzare opere su tela, su tavola, su carta e cartone, sculture in legno, una collezione di sciarpe di lana, tirature limitate di stampe artigianali, grandi teleri o minuscole composizioni, con l’unica regola di non porsi limiti. 
Il suo lavoro ruota attorno a tematiche che spaziano dalla comunione lirica con il paesaggio naturale ad apoteosi fantastiche ricche di personaggi, realistici o immaginari, che si prestano spesso ad accompagnare narrazioni letterarie, spettacoli teatrali e progetti musicali.
Il pensiero di Denis Riva “L'arte è nulla, ma in fondo non possiamo farne a meno” rivela una profonda riflessione sul senso dell’arte come orpello, oggetto da collezione o pretesto di sfogo creativo, che non risulta essere davvero indispensabile, ma paradossalmente lo diventa nel momento in cui crea, e a un tempo soddisfa, un bisogno primario e istintivo dell’essere umano. Da questa presa di coscienza ha origine il progetto La Techina porta nullità, una Wunderkammer portatile che rende preziosa la selezione di piccole opere di volta in volta diverse, che offrono la possibilità di aprire una finestra sul ‘Ganzamonio’ – questo il nome d’arte del luogo creativo di Denis Riva – rivelando scorci sempre nuovi. Per Selvatico contemporaneo la scelta è ricaduta su miniature legate al Selvatico come modo di essere dell’artista e di concepire il mondo.

Laurina
Paperina

Mountain Legends, 2012
N. 3 Lambda print su alluminio
20 x 30 cm l’una
Courtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

 

Laurina Paperina, al secolo Laura Scottini, appartiene alla generazione di artisti nati nei favolosi anni Ottanta, a cui, fin dall’infanzia, è stata somministrata una poderosa ondata di cultura pop, con la diffusione delle serie TV, dei cartoni animati e dei primi videogiochi elettronici. Nutrimento per lo spirito di una giovane promessa del mondo dell’arte, tutto ciò che riguarda la produzione creativa dalla sua nascita a oggi viene impastato e restituito a 360 gradi da Laurina Paperina, attraverso un linguaggio di grande impatto visivo che parla a tutte le generazioni. Le figure tipiche del segno di Paperina sono contornate di nero e caratterizzate da una bidimensionalità mutuata dagli stilemi del fumetto. Questo non le impedisce di sperimentare altri medium artistici, andando oltre la superficie del foglio o della tela per spingersi fino alla scultura multimaterica, alla video arte e alla realtà aumentata.
Attraverso la tecnica del fotoritocco, sperimentata sia in maniera analogica con la rivisitazione di poster, riviste e cartoline vintage, sia in digitale, Laurina Paperina riflette anche sul contesto del paesaggio montano, che sente come luogo di origine privilegiato da cui trarre ispirazione.
Nel 2012, in occasione di una collaborazione con Dolomiti Contemporanee, lavora proprio su una serie di fotografie di paesaggio, manipolate digitalmente nel suo stile inconfondibile. Questo gruppo di opere, intitolate significativamente Mountain Legends, rimanda all’immaginario delle leggende retaggio della cultura popolare di montagna, concentrandosi in particolare modo sull’Uomo Selvatico, Questa figura diventa Yeti, Big Foot, oppure leggendario cacciatore del bosco assetato di giustizia.
L’elemento crudo e grottesco caratterizza con ironia il linguaggio dell’artista, che programmaticamente rifiuta l’arte che si prende troppo sul serio.

Pietro
Weber

Testa, 2022
Terracotta e ossidi
h 60 cm
Courtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

 

Si potrebbe pensare a Pietro Weber come a un contemporaneo alchimista. Abile manipolatore della materia in trasformazione nei suoi quattro stadi, prima di dedicarsi quasi esclusivamente all’argilla ha lavorato con cera, ferro, carta e altri materiali assemblati, dando vita a misteriose silhouette apparentemente senza tempo, capaci di farsi arredi e complementi, oltre che opere d’arte in senso stretto. Collezionista egli stesso di mirabilia, oggetti devozionali e cimeli etnoantropologici di vario genere, raccolti nel corso di lunghi viaggi nelle culle delle civiltà mediterranee e sub-sahariane, oppure trovati nei più disparati mercatini dell’usato, Pietro Weber è profondamente influenzato dalle forme del sacro e dalle sue molteplici rappresentazioni, tanto che le sue sculture assumono spesso una valenza ieratica.
Oggetto privilegiato della sua ricerca artistica nell’ambito dell’arte fittile è però la figura umana, indagata all’estremo delle sue possibilità attraverso inesauste sperimentazioni con il colore e con il decoro che adorna costumi e copricapi.

Uno dei soggetti più ricorrenti nell’ambito della sua produzione è la testa antropomorfa, individuata come sede del pensiero e sommità di una torre ideale, all’interno della quale fluiscono i segreti della creatività umana.

Margherita
Paoletti

La ribellione dei corpi danzanti, 2022
Acrilico su tela
89 x 115 cm
Courtesy Cellar Contemporary, Trento

 

Pittrice, illustratrice e designer, Margherita Paoletti è una delle poche custodi delle antiche arti incisorie, che padroneggia fin dall’inizio del suo percorso artistico e che le sono valse residenze e riconoscimenti internazionali. È però con la pittura che l’artista riesce a esprimere e far emergere liberamente le tematiche urgenti ricorrenti nel suo lavoro: su tutte, la ricerca della dimensione interiore e delle modalità di comunicazione con l’esterno.
La figura femminile è prevalente nelle opere di Paoletti, che ne fa pretesto per elaborare un’iconografia personale in cui ogni fiore, ogni farfalla, ogni piccolo elemento simbolico assume un significato narrativo per rivelare l’essenza stessa del soggetto, spesso autobiografico. 
L’opera La ribellione dei corpi danzanti è un esplicito omaggio a Matisse e al movimento artistico dei Fauves, e alla sua poetica di ispirazione per Paoletti, in particolare all’opera La danse, di cui rivisita le figure rosse stilizzate nel movimento istintivo di una danza popolare. Nel lavoro di Margherita Paoletti il richiamo alla natura selvaggia circostante è reso ancor più esplicito dalla finestra che si apre in ciascun corpo, offrendo una visione pura e incontaminata degli istinti umani più primitivi e un invito a lasciarli andare in libertà.

David Aaron
Angeli

Lepus, 2024
Cera d’api nera, legno di rovere tinto a china nera, ferro
15 x 12 x 5 cm
Courtesy Cellar Contemporary, Trento

 

Picus viridis, 2024
Cera d’api nera, legno di rovere tinto a china nera, ferro, piuma di picchio verde
22 x 14 x 5 cm
Courtesy Cellar Contemporary, Trento

 

Abile scultore, puntiglioso modellatore, David Aaron Angeli lavora la cera d’api fin dagli inizi della sua formazione come orafo prima e scultore poi. Materiale fondamentale per gli stampi a cera persa, utilizzato fin dall’antichità per produrre gioielli e oggetti preziosi, nel lavoro di Angeli la cera viene valorizzata e assunta a materia principale della scultura, assumendo di volta in volta forme animali, naturali, antropomorfe o di contenitore o strumento rituale.
La ricerca dell’artista si basa infatti sulla triade uomo-natura-divinità in una continua serie di richiami che echeggiano l’interrogativo ancestrale dell’essere umano sul senso della vita.

Le solenni pose del sacro sono per l’artista oggetto di studio dalle molteplici prospettive, espresse anche da un lavoro su carta che assume valenza scultorea. Se Angeli sperimenta anche il lavoro con la fusione metallica, è nuovamente con la cera, talvolta tinta integralmente di nero o di rosso, talaltra semplicemente lavorata con appositi smalti, che può esprimere appieno la sua ricerca. 

La mano dell’uomo mantiene il bastone quale simbolico collegamento tra la terra e il cielo. Sulla sommità del bastone sono collocati i simboli offerti da una natura misteriosa e ineffabile, come la piuma del picchio verde, raccolta nel bosco, o la testa della lepre, animale schivo e selvatico per eccellenza.

La figura umana nella sua vita in comunità con la natura diventa così il tramite ideale tra il mondo tangibile e la sfera del trascendente.

 

Angelo
Maisto

Il Re Cacciatore, 2020
Acquerello su carta
35 x 50 cm
Courtesy Cellar Contemporary, Trento

 

Il Re Cacciatore, 2018
Oggetti assemblati
16 x 10 x 16 cm
Courtesy Cellar Contemporary, Trento

 

Alla base della ricerca artistica di Angelo Maisto c’è l’amore per le piccole cose, accompagnato dalla riflessione profonda sul loro intimo funzionamento, in quanto creature dell’uomo.

Nel suo lavoro avviene un processo di trasformazione dell’artificiale in naturale, una restituzione dell’oggetto d’uso comune a un mondo selvaggio dove poter attuare un’utopica fusione. La scintilla creativa iniziale risiede nell’individuazione dell’anima delle cose e nella scelta dei pezzi da assemblare in quelle che diventano minuziose sculture che entrano a far parte dell’antologia di personaggi di cui l’artista può disporre, come fosse un regista della commedia dell’arte. Le influenze creative dell’artista provengono dalle sue origini partenopee e dalla stimolante frequentazione, fin da bambino, delle sale del Museo di Capodimonte e dei capolavori dell’arte fiamminga.

Attraverso un magistrale lavoro con l’acquerello, Maisto realizza tavole variopinte dagli scenari onirici, in cui i ritratti delle sue sculture vivono più vite, relazionandosi con selve fiorite popolate da creature reali, molto spesso esotiche, tratte soprattutto dal mondo dell’avifauna e dell’entomologia.

Il Re Cacciatore, emblema di un’immaginaria caccia selvaggia, si trasforma nell’opera di Angelo Maisto in un ingenuo, quanto poetico, cacciatore di sogni, che le maglie troppo larghe della gabbia che porta con sé non riuscirebbero in ogni caso a trattenere a lungo.

 

Federico
Lanaro

Scheibe2, 2012
Acrilico su tavola
20 < 35 cm di diametro
Courtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

 

Il lavoro dell’artista trentino Federico Lanaro si potrebbe collocare in una prospettiva al confine tra locale e globale. Interprete iper-contemporaneo delle tradizioni del territorio e dell’endemico legame con la natura, che traspare in ogni suo lavoro, Federico Lanaro oltre alla pratica della pittura su tela, spesso caratterizzata dall’uso del colore fluorescente, sperimenta i linguaggi dell’assemblaggio, della fotografia, del design e della scultura.

Il progetto Scheibe2 (= disco), concepito come un’installazione di più elementi, pone al centro della ricerca la caccia, letta come pratica primordiale di connessione e relazione tra l’uomo e l’animale. La scelta del bersaglio tradizionale tirolese decorato presente nelle case dei cacciatori e spesso vera e propria opera d’arte di artigianato locale, denota la volontà di rivisitare un oggetto dalla forte valenza storica e simbolica, applicandovi gli stilemi estetici contemporanei.

La figura umana e le figure animali che si stagliano su uno sfondo bianco, danno vita a nuove, improbabili, relazioni.

Mitríková
& Demjanovič

Straw Mask, 2019
Pirografia su tavola
80 x 62,5 cm
Courtesy Collezione privata Raffaelli, Trento

 

Cult Mask, 2019
Ceramica smaltata
h 35 cm
Courtesy Studio d’Arte Raffaelli, Trento

 

Duo artistico nato dal sodalizio della pittrice Jarmila Mitríková e dello scultore Dávid Demjanovič, entrambi provenienti dalla Slovacchia, Mitríková & Demjanovič hanno elaborato una poetica che riflette la storia e le storie dell’Est Europa calandole in una quotidianità distopica, in cui culti pagani, retaggi del vecchio regime e architetture razionaliste si stagliano su uno sfondo basato su una solida tradizione rurale.

I medium privilegiati sono quelli della scultura in ceramica smaltata e della pirografia dipinta su tavola, tecniche artistiche largamente utilizzate per produrre souvenir e soprammobili che vengono veicolati dall’artigianato locale e si rivolgono al turismo di massa.

La rappresentazione della società che scaturisce dalla visione di Mitríková & Demjanovič restituisce la visione, ancora sfocata, di una comunità in via di modernizzazione, dove l’impulso alle spinte della globalizzazione non riesce a travalicare la cultura immateriale che ancora rappresenta il mostro del grano, le mascherate carnevalesche, e le feste popolari. In questo orizzonte le pratiche religiose si innestano su antiche superstizioni, generando affascinanti cortocircuiti temporali. 

  

 

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